Visto che in fondo parafraseggiare l'altro giorno non mi e' dispiaciuto, proseguo. Finche' e' divertente continuo :P
Direi che si puo' finire il primo canto :)
E come quei che non sapean se l'una
o l'altra via facesse la donzella
(però che senza differenza alcuna
apparia in amendue l'orma novella),
si messero ad arbitrio di fortuna,
Rinaldo a questa, il Saracino a quella.
Pel bosco Ferraù molto s'avvolse,
e ritrovossi al fine onde si tolse.
Pur si ritrova ancor su la rivera,
là dove l'elmo gli cascò ne l'onde.
Poi che la donna ritrovar non spera,
per aver l'elmo che 'l fiume gli asconde,
in quella parte onde caduto gli era
discende ne l'estreme umide sponde:
ma quello era sì fitto ne la sabbia,
che molto avrà da far prima che l'abbia.
Con un gran ramo d'albero rimondo,
di ch'avea fatto una pertica lunga,
tenta il fiume e ricerca sino al fondo,
né loco lascia ove non batta e punga.
Mentre con la maggior stizza del mondo
tanto l'indugio suo quivi prolunga,
vede di mezzo il fiume un cavalliero
insino al petto uscir, d'aspetto fiero.
Era, fuor che la testa, tutto armato,
ed avea un elmo ne la destra mano:
avea il medesimo elmo che cercato
da Ferraù fu lungamente invano.
A Ferraù parlò come adirato,
e disse: - Ah mancator di fé, marano!
perché di lasciar l'elmo anche t'aggrevi,
che render già gran tempo mi dovevi?
Ricordati, pagan, quando uccidesti
d'Angelica il fratel (che son quell'io),
dietro all'altr'arme tu mi promettesti
gittar fra pochi dì l'elmo nel rio.
Or se Fortuna (quel che non volesti
far tu) pone ad effetto il voler mio,
non ti turbare; e se turbar ti déi,
turbati che di fé mancato sei.
Ma se desir pur hai d'un elmo fino,
trovane un altro, ed abbil con più onore;
un tal ne porta Orlando paladino,
un tal Rinaldo, e forse anco migliore:
l'un fu d'Almonte, e l'altro di Mambrino:
acquista un di quei dui col tuo valore;
e questo, ch'hai già di lasciarmi detto,
farai bene a lasciarmi con effetto. -
All'apparir che fece all'improvviso
de l'acqua l'ombra, ogni pelo arricciossi,
e scolorossi al Saracino il viso;
la voce, ch'era per uscir, fermossi.
Udendo poi da l'Argalia, ch'ucciso
quivi avea già (che l'Argalia nomossi)
la rotta fede così improverarse,
di scorno e d'ira dentro e di fuor arse.
Né tempo avendo a pensar altra scusa,
e conoscendo ben che 'l ver gli disse,
restò senza risposta a bocca chiusa;
ma la vergogna il cor sì gli trafisse,
che giurò per la vita di Lanfusa
non voler mai ch'altro elmo lo coprisse,
se non quel buono che già in Aspramonte
trasse dal capo Orlando al fiero Almonte.
E servò meglio questo giuramento,
che non avea quell'altro fatto prima.
Quindi si parte tanto malcontento,
che molti giorni poi si rode e lima.
Sol di cercare è il paladino intento
di qua di là, dove trovarlo stima.
Altra ventura al buon Rinaldo accade,
che da costui tenea diverse strade.
Non molto va Rinaldo, che si vede
saltare inanzi il suo destrier feroce:
- Ferma, Baiardo mio, deh, ferma il piede!
che l'esser senza te troppo mi nuoce. -
Per questo il destrier sordo, a lui non riede
anzi più se ne va sempre veloce.
Segue Rinaldo, e d'ira si distrugge:
ma seguitiamo Angelica che fugge.
Fugge tra selve spaventose e scure,
per lochi inabitati, ermi e selvaggi.
Il mover de le frondi e di verzure,
che di cerri sentia, d'olmi e di faggi,
fatto le avea con subite paure
trovar di qua di là strani viaggi;
ch'ad ogni ombra veduta o in monte o in valle,
temea Rinaldo aver sempre alle spalle.
Qual pargoletta o damma o capriuola,
che tra le fronde del natio boschetto
alla madre veduta abbia la gola
stringer dal pardo, o aprirle 'l fianco o 'l petto,
di selva in selva dal crudel s'invola,
e di paura trema e di sospetto:
ad ogni sterpo che passando tocca,
esser si crede all'empia fera in bocca.
Quel dì e la notte a mezzo l'altro giorno
s'andò aggirando, e non sapeva dove.
Trovossi al fin in un boschetto adorno,
che lievemente la fresca aura muove.
Duo chiari rivi, mormorando intorno,
sempre l'erbe vi fan tenere e nuove;
e rendea ad ascoltar dolce concento,
rotto tra picciol sassi, il correr lento.
Quivi parendo a lei d'esser sicura
e lontana a Rinaldo mille miglia,
da la via stanca e da l'estiva arsura,
di riposare alquanto si consiglia:
tra' fiori smonta, e lascia alla pastura
andare il palafren senza la briglia;
e quel va errando intorno alle chiare onde,
che di fresca erba avean piene le sponde.
Ecco non lungi un bel cespuglio vede
di prun fioriti e di vermiglie rose,
che de le liquide onde al specchio siede,
chiuso dal sol fra l'alte querce ombrose;
così voto nel mezzo, che concede
fresca stanza fra l'ombre più nascose:
e la foglia coi rami in modo è mista,
che 'l sol non v'entra, non che minor vista.
Dentro letto vi fan tenere erbette,
ch'invitano a posar chi s'appresenta.
La bella donna in mezzo a quel si mette,
ivi si corca ed ivi s'addormenta.
Ma non per lungo spazio così stette,
che un calpestio le par che venir senta:
cheta si leva e appresso alla riviera
vede ch'armato un cavallier giunt'era.
Se gli è amico o nemico non comprende:
tema e speranza il dubbio cor le scuote;
e di quella aventura il fine attende,
né pur d'un sol sospir l'aria percuote.
Il cavalliero in riva al fiume scende
sopra l'un braccio a riposar le gote;
e in un suo gran pensier tanto penètra,
che par cangiato in insensibil pietra.
Pensoso più d'un'ora a capo basso
stette, Signore, il cavallier dolente;
poi cominciò con suono afflitto e lasso
a lamentarsi sì soavemente,
ch'avrebbe di pietà spezzato un sasso,
una tigre crudel fatta clemente.
Sospirante piangea, tal ch'un ruscello
parean le guance, e 'l petto un Mongibello.
- Pensier (dicea) che 'l cor m'agghiacci ed ardi,
e causi il duol che sempre il rode e lima,
che debbo far, poi ch'io son giunto tardi,
e ch'altri a corre il frutto è andato prima?
a pena avuto io n'ho parole e sguardi,
ed altri n'ha tutta la spoglia opima.
Se non ne tocca a me frutto né fiore,
perché affligger per lei mi vuo' più il core?
La verginella è simile alla rosa,
ch'in bel giardin su la nativa spina
mentre sola e sicura si riposa,
né gregge né pastor se le avvicina;
l'aura soave e l'alba rugiadosa,
l'acqua, la terra al suo favor s'inchina:
gioveni vaghi e donne inamorate
amano averne e seni e tempie ornate.
Ma non sì tosto dal materno stelo
rimossa viene e dal suo ceppo verde,
che quanto avea dagli uomini e dal cielo
favor, grazia e bellezza, tutto perde.
La vergine che 'l fior, di che più zelo
che de' begli occhi e de la vita aver de',
lascia altrui corre, il pregio ch'avea inanti
perde nel cor di tutti gli altri amanti.
Sia Vile agli altri, e da quel solo amata
a cui di sé fece sì larga copia.
Ah, Fortuna crudel, Fortuna ingrata!
trionfan gli altri, e ne moro io d'inopia.
Dunque esser può che non mi sia più grata?
dunque io posso lasciar mia vita propia?
Ah più tosto oggi manchino i dì miei,
ch'io viva più, s'amar non debbo lei! -
Se mi domanda alcun chi costui sia,
che versa sopra il rio lacrime tante,
io dirò ch'egli è il re di Circassia,
quel d'amor travagliato Sacripante;
io dirò ancor, che di sua pena ria
sia prima e sola causa essere amante,
è pur un degli amanti di costei:
e ben riconosciuto fu da lei.
Appresso ove il sol cade, per suo amore
venuto era dal capo d'Oriente;
che seppe in India con suo gran dolore,
come ella Orlando sequitò in Ponente:
poi seppe in Francia che l'imperatore
sequestrata l'avea da l'altra gente,
per darla all'un de' duo che contra il Moro
più quel giorno aiutasse i Gigli d'oro.
Stato era in campo, e inteso avea di quella
rotta crudel che dianzi ebbe re Carlo:
cercò vestigio d'Angelica bella,
né potuto avea ancora ritrovarlo.
Questa è dunque la trista e ria novella
che d'amorosa doglia fa penarlo,
affligger, lamentare, e dir parole
che di pietà potrian fermare il sole.
Mentre costui così s'affligge e duole,
e fa degli occhi suoi tepida fonte,
e dice queste e molte altre parole,
che non mi par bisogno esser racconte;
l'aventurosa sua fortuna vuole
ch'alle orecchie d'Angelica sian conte:
e così quel ne viene a un'ora, a un punto,
ch'in mille anni o mai più non è raggiunto.
Con molta attenzion la bella donna
al pianto, alle parole, al modo attende
di colui ch'in amarla non assonna;
né questo è il primo dì ch'ella l'intende:
ma dura e fredda più d'una colonna,
ad averne pietà non però scende,
come colei c'ha tutto il mondo a sdegno,
e non le par ch'alcun sia di lei degno.
Pur tra quei boschi il ritrovarsi sola
le fa pensar di tor costui per guida;
che chi ne l'acqua sta fin alla gola
ben è ostinato se mercé non grida.
Se questa occasione or se l'invola,
non troverà mai più scorta sì fida;
ch'a lunga prova conosciuto inante
s'avea quel re fedel sopra ogni amante.
Ma non però disegna de l'affanno
che lo distrugge alleggierir chi l'ama,
e ristorar d'ogni passato danno
con quel piacer ch'ogni amator più brama:
ma alcuna fizione, alcuno inganno
di tenerlo in speranza ordisce e trama;
tanto ch'a quel bisogno se ne serva,
poi torni all'uso suo dura e proterva.
E fuor di quel cespuglio oscuro e cieco
fa di sé bella ed improvvisa mostra,
come di selva o fuor d'ombroso speco
Diana in scena o Citerea si mostra;
e dice all'apparir: - Pace sia teco;
teco difenda Dio la fama nostra,
e non comporti, contra ogni ragione,
ch'abbi di me sì falsa opinione. -
Non mai con tanto gaudio o stupor tanto
levò gli occhi al figliuolo alcuna madre,
ch'avea per morto sospirato e pianto,
poi che senza esso udì tornar le squadre;
con quanto gaudio il Saracin, con quanto
stupor l'alta presenza e le leggiadre
maniere, e il vero angelico sembiante,
improviso apparir si vide inante.
Pieno di dolce e d'amoroso affetto,
alla sua donna, alla sua diva corse,
che con le braccia al collo il tenne stretto,
quel ch'al Catai non avria fatto forse.
Al patrio regno, al suo natio ricetto,
seco avendo costui, l'animo torse:
subito in lei s'avviva la speranza
di tosto riveder sua ricca stanza.
Ella gli rende conto pienamente
dal giorno che mandato fu da lei
a domandar soccorso in Oriente
al re de' Sericani e Nabatei;
e come Orlando la guardò sovente
da morte, da disnor, da casi rei:
e che 'l fior virginal così avea salvo,
come se lo portò del materno alvo.
Forse era ver, ma non però credibile
a chi del senso suo fosse signore;
ma parve facilmente a lui possibile,
ch'era perduto in via più grave errore.
Quel che l'uom vede, Amor gli fa invisibiIe,
e l'invisibil fa vedere Amore.
Questo creduto fu; che 'l miser suole
dar facile credenza a quel che vuole.
- Se mal si seppe il cavallier d'Anglante
pigliar per sua sciocchezza il tempo buono,
il danno se ne avrà; che da qui inante
nol chiamerà Fortuna a sì gran dono
(tra sé tacito parla Sacripante):
ma io per imitarlo già non sono,
che lasci tanto ben che m'è concesso,
e ch'a doler poi m'abbia di me stesso.
Corrò la fresca e matutina rosa,
che, tardando, stagion perder potria.
So ben ch'a donna non si può far cosa
che più soave e più piacevol sia,
ancor che se ne mostri disdegnosa,
e talor mesta e flebil se ne stia:
non starò per repulsa o finto sdegno,
ch'io non adombri e incarni il mio disegno. -
Così dice egli; e mentre s'apparecchia
al dolce assalto, un gran rumor che suona
dal vicin bosco gl'intruona l'orecchia,
sì che mal grado l'impresa abbandona:
e si pon l'elmo (ch'avea usanza vecchia
di portar sempre armata la persona),
viene al destriero e gli ripon la briglia,
rimonta in sella e la sua lancia piglia.
Ecco pel bosco un cavallier venire,
il cui sembiante è d'uom gagliardo e fiero:
candido come nieve è il suo vestire,
un bianco pennoncello ha per cimiero.
Re Sacripante, che non può patire
che quel con l'importuno suo sentiero
gli abbia interrotto il gran piacer ch'avea,
con vista il guarda disdegnosa e rea.
Come è più appresso, lo sfida a battaglia;
che crede ben fargli votar l'arcione.
Quel che di lui non stimo già che vaglia
un grano meno, e ne fa paragone,
l'orgogliose minacce a mezzo taglia,
sprona a un tempo, e la lancia in resta pone.
Sacripante ritorna con tempesta,
e corronsi a ferir testa per testa.
Non si vanno i leoni o i tori in salto
a dar di petto, ad accozzar sì crudi,
sì come i duo guerrieri al fiero assalto,
che parimente si passar li scudi.
Fe' lo scontro tremar dal basso all'alto
l'erbose valli insino ai poggi ignudi;
e ben giovò che fur buoni e perfetti
gli osberghi sì, che lor salvaro i petti.
Già non fero i cavalli un correr torto,
anzi cozzaro a guisa di montoni:
quel del guerrier pagan morì di corto,
ch'era vivendo in numero de' buoni:
quell'altro cadde ancor, ma fu risorto
tosto ch'al fianco si sentì gli sproni.
Quel del re saracin restò disteso
adosso al suo signor con tutto il peso.
L'incognito campion che restò ritto,
e vide l'altro col cavallo in terra,
stimando avere assai di quel conflitto,
non si curò di rinovar la guerra;
ma dove per la selva è il camin dritto,
correndo a tutta briglia si disserra;
e prima che di briga esca il pagano,
un miglio o poco meno è già lontano.
Qual istordito e stupido aratore,
poi ch'è passato il fulmine, si leva
di là dove l'altissimo fragore
appresso ai morti buoi steso l'aveva;
che mira senza fronde e senza onore
il pin che di lontan veder soleva:
tal si levò il pagano a piè rimaso,
Angelica presente al duro caso.
Sospira e geme, non perché l'annoi
che piede o braccio s'abbi rotto o mosso,
ma per vergogna sola, onde a' dì suoi
né pria né dopo il viso ebbe sì rosso:
e più, ch'oltre il cader, sua donna poi
fu che gli tolse il gran peso d'adosso.
Muto restava, mi cred'io, se quella
non gli rendea la voce e la favella.
- Deh! (diss'ella) signor, non vi rincresca!
che del cader non è la colpa vostra,
ma del cavallo, a cui riposo ed esca
meglio si convenia che nuova giostra.
Né perciò quel guerrier sua gloria accresca
che d'esser stato il perditor dimostra:
così, per quel ch'io me ne sappia, stimo,
quando a lasciare il campo è stato primo. -
Mentre costei conforta il Saracino,
ecco col corno e con la tasca al fianco,
galoppando venir sopra un ronzino
un messagger che parea afflitto e stanco;
che come a Sacripante fu vicino,
gli domandò se con un scudo bianco
e con un bianco pennoncello in testa
vide un guerrier passar per la foresta.
Rispose Sacripante: - Come vedi,
m'ha qui abbattuto, e se ne parte or ora;
e perch'io sappia chi m'ha messo a piedi,
fa che per nome io lo conosca ancora. -
Ed egli a lui: - Di quel che tu mi chiedi
io ti satisfarò senza dimora:
tu dei saper che ti levò di sella
l'alto valor d'una gentil donzella.
Ella è gagliarda ed è più bella molto;
né il suo famoso nome anco t'ascondo:
fu Bradamante quella che t'ha tolto
quanto onor mai tu guadagnasti al mondo. -
Poi ch'ebbe così detto, a freno sciolto
il Saracin lasciò poco giocondo,
che non sa che si dica o che si faccia,
tutto avvampato di vergogna in faccia.
Poi che gran pezzo al caso intervenuto
ebbe pensato invano, e finalmente
si trovò da una femina abbattuto,
che pensandovi più, più dolor sente;
montò l'altro destrier, tacito e muto:
e senza far parola, chetamente
tolse Angelica in groppa, e differilla
a più lieto uso, a stanza più tranquilla.
Non furo iti due miglia, che sonare
odon la selva che li cinge intorno,
con tal rumore e strepito, che pare
che triemi la foresta d'ogn'intorno;
e poco dopo un gran destrier n'appare,
d'oro guernito e riccamente adorno,
che salta macchie e rivi, ed a fracasso
arbori mena e ciò che vieta il passo.
- Se l'intricati rami e l'aer fosco,
(disse la donna) agli occhi non contende,
Baiardo è quel destrier ch'in mezzo il bosco
con tal rumor la chiusa via si fende.
Questo è certo Baiardo, io 'l riconosco:
deh, come ben nostro bisogno intende!
ch'un sol ronzin per dui saria mal atto,
e ne viene egli a satisfarci ratto. -
Smonta il Circasso ed al destrier s'accosta,
e si pensava dar di mano al freno.
Colle groppe il destrier gli fa risposta,
che fu presto al girar come un baleno;
ma non arriva dove i calci apposta:
misero il cavallier se giungea a pieno!
che nei calci tal possa avea il cavallo,
ch'avria spezzato un monte di metallo.
Indi va mansueto alla donzella,
con umile sembiante e gesto umano,
come intorno al padrone il can saltella,
che sia duo giorni o tre stato lontano.
Baiardo ancora avea memoria d'ella,
ch'in Albracca il servia già di sua mano
nel tempo che da lei tanto era amato
Rinaldo, allor crudele, allor ingrato.
Con la sinistra man prende la briglia,
con l'altra tocca e palpa il collo e 'l petto:
quel destrier, ch'avea ingegno a maraviglia,
a lei, come un agnel, si fa suggetto.
Intanto Sacripante il tempo piglia:
monta Baiardo e l'urta e lo tien stretto.
Del ronzin disgravato la donzella
lascia la groppa, e si ripone in sella.
Poi rivolgendo a caso gli occhi, mira
venir sonando d'arme un gran pedone.
Tutta s'avvampa di dispetto e d'ira,
che conosce il figliuol del duca Amone.
Più che sua vita l'ama egli e desira;
l'odia e fugge ella più che gru falcone.
Già fu ch'esso odiò lei più che la morte;
ella amò lui: or han cangiato sorte.
E questo hanno causato due fontane
che di diverso effetto hanno liquore,
ambe in Ardenna, e non sono lontane:
d'amoroso disio l'una empie il core;
chi bee de l'altra, senza amor rimane,
e volge tutto in ghiaccio il primo ardore.
Rinaldo gustò d'una, e amor lo strugge;
Angelica de l'altra, e l'odia e fugge.
Quel liquor di secreto venen misto,
che muta in odio l'amorosa cura,
fa che la donna che Rinaldo ha visto,
nei sereni occhi subito s'oscura;
e con voce tremante e viso tristo
supplica Sacripante e lo scongiura
che quel guerrier più appresso non attenda,
ma ch'insieme con lei la fuga prenda.
- Son dunque (disse il Saracino), sono
dunque in sì poco credito con vui,
che mi stimiate inutile e non buono
da potervi difender da costui?
Le battaglie d'Albracca già vi sono
di mente uscite, e la notte ch'io fui
per la salute vostra, solo e nudo,
contra Agricane e tutto il campo, scudo? -
Non risponde ella, e non sa che si faccia,
perché Rinaldo ormai l'è troppo appresso,
che da lontan al Saracin minaccia,
come vide il cavallo e conobbe esso,
e riconohbe l'angelica faccia
che l'amoroso incendio in cor gli ha messo.
Quel che seguì tra questi duo superbi
vo' che per l'altro canto si riserbi.
Avevamo lasciato Ferrau' e Rinaldo ad un bivio. Non sapendo dove andare i due si dividono, uno prende una strada, l'altro per l'altra.
Ferrau' inforca la strada e gira e gira e gira per il bosco fino a ritrovarsi al punto di partenza.
Giornata sfigata, niente da dire. Vabbe', almeno puo' recuperare il suo elmo.
Senonche' "suo" e' una parola grossa: l'elmo in realta' e' di Argalia, fratello di Angelica, e glielo aveva preso dopo averlo sfidato a duello ed ucciso. Ed e' nel fiume che, sorpresa, appare proprio il fantasma di Argalia che, indispettito, si riprende l'elmo.
«Brutto stronzo Marrano! - esordisce il fantasma - avevi detto che avresti ributtato il mio elmo nel fiume e invece te lo sei tenuto! E' un elmo normale, se devi rubarne uno rubane uno che ti faccia figo, tipo quello di Orlando che e' magico, e non rompere gli zebedei a me che ho... cioe', avevo un elmo di latta!»
Argalia quindi se ne va. E Ferrau' sbianca. E Ferrau' era nero! Era rimasto zitto ed interdetto (anche perche', diciamo, se ti compare il fantasma di uno che hai ammazzato personalmente ti viene da pensare che forse forse se la sia anche presa) e dopo la scomparsa del fantasma decide che non avrebbe piu' indossato un elmo fino a quando non avesse sconfitto Orlando a duello.
Si impone una nota a margine: Ferrau', grazie ad un incantesimo, e' totalmente invulnerabile tranne che nell'ombelico. E sull'ombelico ha una corazza GROSSA (mi pare qualcosa come sette strati di acciaio) quindi andare in giro senza elmo non e' che fosse 'sto grande svantaggio rispetto agli altri.
Ma lasciamo stare Ferrau'. Guardiamo Rinaldo.
Rinaldo seguendo la sua strada trova... Baiardo, il suo cavallo. Meglio che niente, si potrebbe dire, se non fosse che il cavallo deve averlo preso in antipatia e scappa di gran carriera, inseguito dal suo cavaliere.
...diciamo che lasciamo stare Rinaldo. Andiamo da Angelica che, corri e corri, arriva ad una radura. Convinta di essere abbastanza lontana da Rinaldo si ferma, lascia riposare il cavallo e trova un nascondiglio perfetto in un cespuglio sotto due alberi sulla riva di un fiume. Lei si sdraia e, bam!, si addormenta secca e riesce a riposare.
Per circa 3 minuti e 29 secondi.
Passato questo tempo sente dei passi: c'e' un uomo che si avvicina, smonta da cavallo, si avvicina alla riva e resta cosi' a capo chino per un'oretta.
UN'ORA.
Sospetto che Angelica dopo qualche minuto sia tornata secca a dormire.
Dopo si mette a piangere come un vitello. «Me l'hanno portata via! Una vergine e' come una rosa in un giardino, dopo che e' stata colta perde tutto! Me l'hanno portata via! Voglio morire! La mia vita non ha piu' senso!» ed altre uscite da emo quindicenne.
Angelica lo riconosce: e' Sacripante, re di Circassia, un altro di quelli che vorrebbero infiocinar perdutamente innamorati di lei. Sottoinsieme "stupido come un mattone rotto". Saputo che re Carlo l'aveva promessa al cavaliere che avesse fatto piu' strage di infedeli aveva guidato l'assalto al campo (i Circassi rientrano tra gli "infedeli", eh) e, non trovando Angelica, era in preda alla disperazione.
Angelica, ovviamente, sente tutto quanto. Il pensiero che le attraversa la mente si riassume in "[imprecazione], un altro! E un altro STUPIDO! Ma uno, UNO normale no? Vabbe', se non altro magari questo mi tira fuori da questo labirinto di alberi"
Angelica salta fuori dal nascondiglio e si spertica in lodi per Sacripante, che era venuto a liberarla attraversando mezzo mondo, e per Orlando che le aveva conservato il "virginal dono".
Sacripante, saputo che la fanciulla era li ed era ancora vergine, all'inno di "se Orlando e' stato fesso abbastanza da non prendersela, io col ca220 che me la faccio scappare", fece un rapido preventivo del numero di posizioni in cui si sarebbe schiacciato Angelica li ed ora, seduta stante, sotto gli alberi in riva al fiume. E qualora si fosse mostrata disdegnosa, sapeva che fingeva e che le sarebbe piaciuto, OVVIAMENTE.
Arrivato ad un onesto preventivo di diciannove posizioni, Sacripante si preparava gia' al "dolce assalto" quando sente un gran rumore in avvicinamento. Bestemmia a mezza bocca, sbuffa e si rimette in sella.
Dal bosco spunta un cavaliere in armatura bianca splendente ed un pennacchio bianco. Sacripante, incazzato nero perche' l'ha interrotto, parte alla carica. L'impatto e' tremendo e ad avere la peggio e' il cavallo di Sacripante che muore e cade sul suo cavaliere. Il cavaliere bianco vede la scena, scuote la testa e, senza dire una parola, se ne va.
Sacripante e' nero di vergogna.
E' stato disarcionato.
E' stato disarcionato davanti ad Angelica.
Vergognissima.
Angelica, imbarazzata, se ne esce con un «Beh, ma e' colpa del cavallo, era stanco, non era colpa vostra» ed altre scuse del genere, pensando "se questo emo adesso si suicida per la vergogna io da 'sto bosco non ne esco prima dei sessant'anni".
In quella spunta un paggio che corre a perdifiato dalla stessa direzione da cui e' giunto il cavaliere bianco. Si avvicina e chiede «Avete visto per caso un cavaliere con un pennacchio bianco?»
Sacripante sbotta «Si, che l'ho visto, mi ha abbattuto, dimmi chi e' che mi vendico!»
«Ehm... si, so il nome: si chiama Bradamante, signore, e' una... donna. Una donna molto forte in battaglia, si, ecco, io andrei, s'e' fatto tardi e...»
Il volto di Sacripante aveva assunto alcune sfumature di colore tra il ciano ed il magenta, cosa che ragionevolmente aveva inquietato il ragazzo.
Ma vediamola dal punto di vista del paggetto: sta inseguendo Bradamante, una guerriera, e si ritrova il re dei Circassi disarcionato col cavallo morto. Il paggetto sa cosa e' successo e resta sul vago, Sacripante (stupido come un mattone rotto, ricordiamo) gli spiega che l'ha abbattuto e chiede pure informazioni. Al che il paggetto risponde e se la fila.
Ritorniamo da Sacripante. E' stato disarcionato, davanti ad Angelica, da una donna. Non era piu' dell'umore giusto per condurre il "dolce assalto" e, scornato, comincia a scortare Angelica.
Passano pochi minuti ed ecco che spunta Baiardo dal bosco. Angelica riconosce il cavallo di Rinaldo e, dopo poco, eccolo spuntare fuori. Angelica chiede di andar via ma Sacripante, gradasso, «Fidatevi di me, a quello penso io»
Occorre una breve nota in merito: originariamente Angelica era innamorata persa di Rinaldo e Rinaldo la detestava. Una fonte magica a cui hanno bevuto entrambi ha trasformato l'amore in odio e viceversa. Quindi in molti sono ancora disorientati dalla cosa.
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